Che parola importante! Da bambini ci pareva una terribile condanna alla noia (non fare questo, non fare quello…) ma nasceva da un’attenzione ammirevole alle esigenze di chi stava per guarire. Oggi non si usa più. Ed è un peccato.
Si, perché il confine tra salute e malattia, spesso, non è così chiaro, e quando la malattia era una situazione davvero pericolosa (come frequentemente settanta o cento anni fa), era meglio andare con i piedi di piombo.
Oggi la convalescenza è quasi scomparsa dall’uso e dal linguaggio. Non se ne sente non solo il bisogno, ma neanche più il risuonare.
Come mai? Che la mania della produttività, dell’efficienza, dell’attivismo senza limite, o la violenza dei ritmi di lavoro, delle necessità economiche (talvolta reali, altre solo presunte…) ci abbiamo espropriato anche del tempo giusto della malattia?
Probabilmente è cosi.
E proprio di tempo della malattia si tratta, perché non è corretto sentirsi malati solo nei giorni della febbre, ma anche nei pochi altri che sono necessari per un recupero graduale di tutte le nostre energie, delle nostre forze, di quello stato di buona salute che noi percepiamo come l’effettiva possibilità di fare quello che sentiamo nelle nostre corde.
L’abbandono della convalescenza è la fonte principale delle continue ricadute, delle guarigioni imperfette con lunghi strascichi, del cronicizzarsi di atteggiamenti assunti durante la malattia che poi fatichiamo ad abbandonare.
Prendiamoci quindi qualche giorno in più, se possibile.
Prenderci il tempo per guarire fisicamente, forse, ci farà bene anche da altri punti di vista, per mettere in fila in modo nuovo, e più adatto a noi, le priorità del nostro fare e delle nostre ambizioni, per osservare meglio, a bocce ferme, quello che accade attorno a noi, per pensare, immaginare, progettare nuove attività per quando saremo guariti….
Buona convalescenza a tutti, quindi.
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