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Sconfiggere la malattia?

Le parole non solo sono un mezzo per descrivere la realtà, ma in modo sottile concorrono a modificarla o a crearla.

Se usiamo le parole della guerra per descrivere la malattia inevitabilmente ci poniamo in una condizione per cui noi siamo qualcosa e la malattia è qualcos’altro da noi, un’entità “altra” che dobbiamo far sparire per ritrovarci poi, vittoriosi e guariti, nuovamente liberi come prima.

Peccato che non sia così.

La malattia non è “altro” rispetto a noi, neanche quando è causata da un virus o un batterio (con cui abitualmente conviviamo): è una nostra condizione, un modo di essere. Sgradevole e faticoso fin che si vuole ma un nostro stato che dipende da svariati fattori: quello che siamo diventati nel corso della vita, quello che siamo stati e abbiamo fatto in un periodo recente, la nostra capacità o incapacità di reagire nel migliore dei modi alle condizioni ambientali, in fin dei conti la nostra attitudine a mantenere lo stato di salute.

Quando la malattia è cronica, come nel diabete, nell’ipertensione o nel cancro, tutto questo diventa ancor più evidentemente una parte della nostra vita, qualcosa che non potrà mai essere sconfitto per tornare “quelli di prima”, ma una situazione con cui impariamo a vivere cambiando noi stessi in funzione della nuova realtà. La malattia, infatti, innanzitutto ci cambia.

Dobbiamo quindi stare attenti a usare le parole: termini sbagliati, come quelli del linguaggio bellico (il nemico, l’invasione, la guerra, la sconfitta, le armi) ci possono indurre ad assumere atteggiamenti inutili e controproducenti che ci conducono a maggiore sofferenza invece che al benessere possibile.

Se le parole della guerra sono quindi una metafora sbagliata, quali altre parole possiamo usare?

Michele Bellone in un editoriale su Le Scienze n°659 riporta altri modi di guardare alle cose. Il primo, confrontabile con l’idea di guerra occidentale (distruggere il nemico), si riferisce al pensiero cinese. Nel Laozi, fondamentale testo del pensiero taoista, si ragiona in termini opposti nell’affrontare il conflitto: la guerra migliore è quella che si vince senza combattere, quella in cui osservando attentamente le condizioni della realtà si agisce il meno possibile facendo però tutto quello che è davvero necessario. In questa metafora il medico è un generale (come nella metafora occidentale) che è però consapevole dei limiti della propria arte; il paziente “non è un soldato che deve obbedirgli bensì un sovrano che si rivolge a lui per risolvere un problema”.  Il tutto cercando di mantenere l’umanità e di distruggere il meno possibile.

Ma l’atteggiamento davvero più aderente alla realtà e in fin dei conti più umano c’è suggerito dall’africa sub-sahariana, dove “la malattia è vista come una parte della vita che va accettata e non per forza eliminata militarmente.” Nulla a che vedere con la rassegnazione, ma una parte del nostro “cammino nel quale il medico non è un generale ma una guida che accompagna il paziente, mostrandogli le difficoltà e aiutandolo un passo alla volta”.

Il viaggio della nostra vita in questo senso non comprende vittorie e sconfitte ma esperienze, difficoltà, inciampi, deviazioni e nuovi approcci. È probabilmente meglio se in viaggio non siamo accompagnati da un generale bellicoso ma da un saggio e sapiente consigliere.

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