Palmitoiletanolamide è davvero una parolaccia impossibile da pronunciare: chiamiamola confidenzialmente PEA, che è meglio.
È una sostanza naturalmente presente nel nostro corpo che svolge una serie di funzioni non ancora completamente definite e molto complesse, cosa che accade spesso negli esseri viventi: la stessa sostanza può stimolare certe funzioni, inibirne altre e promuoverne altre ancora.
Il motivo per cui si è preso in considerazione l’uso di questa sostanza risale alle ricerche svolte da Rita Levi Montalcini sui sistemi endogeni di protezione: l’ipotesi di un’azione antinfiammatoria ed in generale protettiva rispetto ai danni alle cellule ed ai neuroni dovuti all’infiammazione svolta dalla PEA è poi stata confermata.
Oggi si è capito che lavora a diversi livelli.
Il primo è un’attività rapida di riduzione del dolore e di protezione per le cellule che può essere attribuita alla modulazione di alcuni percorsi dell’infiammazione (inibisce l’azione delle sostanze proinfiammatorie). Tipicamente la produzione endogena di PEA è massima proprio nelle zone infiammate ed in alcuni studi la sua attività antinfiammatoria si è rivelata più efficace dell’ibuprofene.
Altre azioni, più lente e profonde, sono spiegabili attraverso il fatto che la PEA modula l’attività di alcuni geni coinvolti nella “produzione” dei recettori della cannabis (CB1): il loro nome si deve al fatto che sono il “bersaglio” anche dei principi attivi antidolorifici della Cannabis indica. Aumentando la densità di recettori CB1 sulle cellule si incrementa la sensibilità ad alcune sostanze naturalmente prodotte dall’organismo, dette cannabinoidi endogeni (peptidi, cioè pezzettini di proteine), che partecipano alla modulazione del dolore.
Un’ulteriore ipotesi è che la PEA sia metabolizzata al posto dei cannabinoidi endogeni incrementando quindi la loro concentrazione ed aumentando così l’attività sugli stessi recettori della cannabis. In un modo o nell’altro andiamo sempre ad agire sui vari e complessi meccanismi del controllo naturale del dolore.
In pratica a cosa serve la PEA?
Può essere una buona soluzione per i dolori cronici, come il dolore neuropatico, che non si risolvono con i normali antidolorifici, analogamente o insieme all’acido lipoico, altra sostanza naturale efficace ma dal meccanismo di azione poco conosciuto.
Nel dolore neuropatico si sa che sono coinvolti processi sia d’infiammazione che mutamenti della sensibilità percettiva, a livello locale e del sistema nervoso centrale. L’utilità della PEA dipende dalla grande concentrazione di recettori CB1 sulle fibre che conducono lo stimolo doloroso afferenti al midollo spinale. La cannabis si sa che agisce anche a livello della percezione, e così accade anche ai cannabinoidi endogeni che agiscono sugli stessi recettori.
Il vantaggio è che, essendo un prodotto naturalmente presente nel nostro organismo, sembra non abbia praticamente alcun effetto collaterale, né alcun problema noto di sicurezza. Nell’organismo la PEA non viene infatti immagazzinata ma sintetizzata al momento e rapidamente metabolizzata da un enzima specifico: questo migliora il suo profilo di sicurezza.
In generale per sfruttare pienamente le sue potenzialità conviene assumerla per un periodo abbastanza lungo, qualche settimana o qualche mese, in modo da sfruttare sia l’azione rapida antinfiammatoria che quella lenta di modulazione della sensibilità al dolore.
Finora nelle sperimentazioni sono stati usati dosaggi da 300 a 1200 mg. Più che una relazione dose/efficacia è stato però osservato un aumento dell’effetto col prolungamento del tempo di trattamento: quindi non serve prenderne di più, ma piuttosto più a lungo.
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