Le regole che gravano sulla farmacia talvolta sono misteriose: una di queste è quella sull’obbligo della ricetta. Nella maggior parte dei casi è facile trovare dei motivi ragionevoli a quest’obbligo nell’ottica della tutela della salute pubblica, ma ci sono anche frequenti esempi di situazioni che lasciano perplessi. La domanda se l’obbligo di ricetta per la vitamina D (o meglio per il suo precursore colecalciferolo) sia ragionevole è quindi legittima.
Sono numerosi gli integratori di vitamina D in commercio, di solito a dosaggio limitato; alcuni, quelli per i lattanti ad esempio, prevedono un dosaggio pieno analogo a quello dei farmaci su ricetta. Questi ultimi hanno contenuti diversi e solitamente si ritengono tra loro sostituibili con una semplice regola matematica: più alto è il dosaggio, meno frequenti devono essere le somministrazioni.
In realtà il metodo matematico non tiene conto del fatto che i dosaggi molto alti (100.000 UI o più) sembrano portare a risposte diverse rispetto alla somministrazione continua di dosi minori, tra cui effetti paradossi per cui, per fare un esempio, possono aumentare la fragilità ossea invece che diminuirla.
Il SSN, da parte sua, ha stabilito una serie di criteri per rendere mutuabile il colecalciferolo, cioè la dispensazione a sue spese, e questo è ragionevole perché vi è una efficacia dimostrata abbastanza solidamente solo per situazioni di carenza (dosaggio nel siero inferiore a 20 ng/ml).
Il criterio logico e comprensibile per porre l’obbligo di ricetta dovrebbe essere quello della sicurezza: un farmaco sicuro, che non dia possibilità di abuso, in confezioni il cui contenuto non sia eccessivo e di cui la popolazione generale comprenda l’uso ragionevole, è normalmente considerato acquistabile senza obbligo di ricetta. Tra questi farmaci ne esistono molti, a partire dall’aspirina, il cui profilo di sicurezza è molto inferiore a quello della vitamina D.
Non è quindi facilmente comprensibile l’obbligo di ricetta per le confezioni normali di vitamina D (gocce da 10.000 UI/ml, solitamente usate quotidianamente, oppure 25.000 UI/ml per una somministrazione ogni quindici giorni). Una normale esposizione al sole nei mesi estivi porta a una sintesi di vitamina D da parte della pelle di quantità superiori a quelle che si assumerebbero con questi farmaci.
Più ragionevole è l’obbligo per confezioni con dosaggi superiori.
Da poco sono in commercio prodotti registrati come integratori anche per adulti, quindi acquistabili senza ricetta, che hanno un dosaggio sovrapponibile ai farmaci di cui abbiamo parlato qui sopra (1000 o 2000 UI al giorno), naturalmente a un prezzo molto superiore.
Per ora, quindi, la situazione è contraddittoria: il farmacista può consegnare a richiesta l’integratore, ma se dispensa senza ricetta il farmaco con analogo dosaggio commette un illecito.
Che poi abbia senso assumere vitamina D al di fuori degli stati di carenza, al di là delle suggestioni commerciali o derivate da studi non definitivi, è una questione su cui la discussione in ambito scientifico è ancora molto aperta.
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